Crisi dei chip – Quando i semiconduttori fermano un’industria

Il settore automobilistico si trova nel pieno di un percorso di ripresa dopo i danni prodotti dall’emergenza sanitaria legata al coronavirus. Tuttavia, come dimostrato dalle ultime trimestrali pubblicate dai maggiori costruttori, le prospettive per i prossimi mesi non sono rosee. La colpa, per lo più, è della cosiddetta crisi dei chip, la carenza di semiconduttori che sta determinando frequenti blocchi produttivi, i quali si traducono in una generalizzata mancanza di prodotti e nel conseguente allungamento dei tempi di attesa per gli acquirenti. Di sicuro si tratta di una crisi senza precedenti nella storia delle quattro ruote, ma – come si suol dire – non tutti i mali vengono per nuocere: le attuali problematiche di approvvigionamento stanno spingendo le aziende a ripensare molti dei processi produttivi e a trovare soluzioni che rappresenteranno, in alcuni casi, dei vantaggi competitivi per la transizione verso la mobilità elettrica. 

Le conseguenze del lockdown. A ogni modo, nell’attuale fase l’incertezza fa da padrona. Certa è solo l’origine della carenza di questi componenti ormai cruciali per qualsiasi tipologia di produzioni automobilistiche. La crisi dei chip, infatti, affonda le sue radici nella prima ondata della pandemia e ancor di più nella prima fase di misure restrittive imposte dalle autorità di tutto il mondo nel tentativo di frenare i contagi. A un certo punto dello scorso anno buona parte delle attività produttive non essenziali hanno dovuto chiudere i battenti e il settore automobilistico è stato tra i più colpiti, con gli impianti costretti a fermarsi per settimane e settimane. Le aziende del settore, che – è bene ricordarlo – per la maggior parte acquistano semiconduttori tramite i loro fornitori e non direttamente dai produttori, sono state quindi costrette a cancellare tutti gli ordini. Il comparto dei semiconduttori, a sua volta, ha deciso di dedicare la gran parte della sua capacità produttiva a chi, invece, ha aumentato in modo esponenziale gli ordinativi: le imprese di elettronica di consumo e di dispositivi informatici, per esempio, che si sono trovate nella situazione ideale di servire una domanda in forte crescita grazie alla necessità per milioni di lavoratori di operare in smart-working. Quando, nella scorsa estate, il settore automobilistico è ripartito improvvisamente, il danno era ormai fatto. I produttori di semiconduttori, in virtù della necessità di servire prima chi gode di rapporti diretti e ha garantito la loro sopravvivenza durante il primo lockdown, si sono trovati nell’impossibilità di soddisfare le richieste provenienti dall’automotive.

I nodi logistici e geografici. Il quadro negativo è stato esacerbato dalle difficoltà incontrate dagli operatori della logistica: la mancanza di personale navigante ha ridimensionato l’offerta di navi e spinto al rialzo le tariffe di trasporto, soprattutto sulle rotte tra l’Asia e l’Europa. L’accaparramento di container da parte delle aziende cinesi ha fatto il resto: poche navi e container disponibili, dunque poche spedizioni. Il tutto è stato ulteriormente penalizzato dalla particolare configurazione dell’attuale catena del valore del settore dei semiconduttori: la maggior parte della produzione di dispositivi a basso valore aggiunto è concentrata tra Cina, Giappone, Corea e soprattutto Taiwan, dove poche “fonderie” (come quelle della Tsmc) producono gran parte dei componenti che poi vengono integrati nei prodotti richiesti dal mondo delle quattro ruote. In un contesto reso ancor più negativo dagli incendi di una fabbrica giapponese della Renesas e in una struttura della NXP in Texas, a pagarne le peggiori conseguenze sono stati i costruttori europei e statunitensi, costretti a rallentare, se non a sospendere, le attività produttive. 

I danni per le Case e il mercato. Le conseguenze si possono leggere nei numeri e nelle dichiarazioni delle Case automobilistiche. Stellantis, nel primo semestre, ha bruciato cassa per 1,2 miliardi di euro, cancellando le sinergie prodotte finora dall’integrazione tra le attività ex FCA e PSA, la Ford ha perso 700 mila veicoli, la Renault ha raddoppiato a 200 mila la stima sui volumi persi alla fine del 2020, la Volkswagen ha tagliato le prospettive sulle consegne, la General Motors ha messo in preventivo una perdita produttiva di 100 mila veicoli solo in Nord America, la Honda ha ridotto di 150 mila unità le previsioni di vendita, la Daimler ha avvertito di un impatto sulle performance commerciali della Mercedes e la BMW ha messo in guardia su una situazione sempre più tesa, non escludendo un impatto (anche consistente) su produzione e vendite. Tra i maggiori fornitori, chiari segnali di preoccupazione sono arrivati anche da Brembo, Pirelli, Magna, Continental e via discorrendo. In poche parole, la crisi del coronavirus è stata superata di slancio, anche con risultati brillanti, ma i prossimi mesi saranno ancora duri e problematici. Non a caso la società di consulenza AlixPartners ha preventivato, per l’intero settore, una perdita a fine anno di quasi 4 milioni di veicoli e di ben 110 miliardi di dollari di ricavi. Tuttavia, tali stime andranno di sicuro riviste: secondo gli ultimi report di società di ricerca come AutoForecast Solutions e Ihs Markit, il 2021 rischia di chiudersi con minori volumi tra 6,3 e 7,1 milioni di unità. Del resto, gli effetti del mercato si fanno già sentire con un allungamento dei tempi di attesa, minori campagne promozionali e soprattutto mancanza di modelli in pronta consegna, oltre all’aumento dei prezzi di listino. 

La (lontana) fine del tunnel. E tutto ciò vale solo per il 2021, mentre per i prossimi mesi non ci sono indicazioni chiare: in sostanza manca la necessaria visibilità, per quanto siano in molti a vedere un progressivo miglioramento delle forniture grazie alla decisione di alcune aziende di aumentare la produzione. La fine della crisi dei chip non è comunque vicina. Il gruppo Volkswagen ha parlato di una situazione tesa anche per la parte finale dell’anno e indicato problemi pure per il 2022. Analogo avvertimento è arrivato dal gruppo Stellantis. Stando poi a chi controlla da vicino la situazione, la crisi non è destinata a risolversi prima del 2023. Jean-Marc Chery, amministratore delegato della StMicroelectronics, tra i maggiori fornitori di semiconduttori del settore automobilistico, è stato chiaro in un’intervista a Reuters: “Le cose miglioreranno gradualmente nel 2022, ma non torneremo a una situazione normale prima della metà del 2023”. E per “situazione normale” si intendono livelli di inventario regolari e ritardi medi nelle forniture di circa tre mesi. La multinazionale italo-francese, che ha avvertito pure di un progressivo aumento dei prezzi, sarà in grado di soddisfare solo il 70% della domanda quest’anno e l’85/90% il prossimo. Un analogo avvertimento è arrivato da Pat Gelsinger, numero uno del colosso Intel: “Anche se mi aspetto che i colli di bottiglia diminuiscano nella seconda metà dell’anno, ci vorranno uno o due anni prima che il settore possa tornare a soddisfare pienamente la domanda”.

La reazione. Intanto, in attesa dell’auspicato aumento della capacità produttiva da parte delle aziende (proprio la Intel ha lanciato un progetto ad ampio respiro per localizzare nuove produzioni tra Stati Uniti ed Europa), le Case automobilistiche non sono rimaste certo ferme, mettendo in atto iniziative di vario genere e grado. Non si tratta solo di congelare o rallentare la produzione, ma anche di tanti altri accorgimenti dai molteplici benefici, quantomeno per il futuro. La Tesla, per esempio, ha deciso di rispondere alla carenza di forniture di microcontrollori affidandosi ad altri produttori oppure trovando soluzioni alternative, la Peugeot ha deciso di rimborsare i clienti per l’impossibilità di fornire le sue 308 con i digital cockpit richiesti al momento dell’acquisto, la Ford sta inviando auto non complete ai concessionari nella speranza di poter installare i componenti mancanti in un secondo momento e la Volkswagen sta valutando se sottoscrive accordi di fornitura direttamente con i produttori di semiconduttori e nel mentre sta tagliando la produzione di alcuni dei modelli meno richiesti per privilegiarne altri di maggior appeal o comunque dai maggiori contenuti: è il caso della ID.3 Pure. In ogni caso, il mondo delle quattro ruote è ormai entrato nell’ottica che l’attuale catena del valore vada ripensata per prevenire nuove carenze di componenti cruciali: una filiera ormai allungata a dismisura, troppo complessa e spesso eccessivamente legata a pochi fornitori, magari concentrati in aree lontane dagli impianti di assemblaggio, rischia di non essere controllata nelle giuste misure, soprattutto alla luce dell’attuale fase di transizione verso la mobilità elettrica, che impone un cambio di rotta rapido. Non sono un caso i sempre più frequenti accordi tra i costruttori e le società minerarie per la fornitura di elementi chimici imprescindibili per le batterie o per i motori elettrici. L’attuale crisi dei chip porterà a rivedere gli attuali rapporti di fornitura e di certo non sarà un male né per le Case, né per i clienti finali. L’unico problema sono i tempi: i benefici arriveranno, ma non certo nel breve termine.