Decarbonizzazione – Greenpeace fa la lista dei “cattivi”: qualcosa non torna

Detto fatto. Un quarto di secolo di tecnologia ibrida buttato alle ortiche in cinque minuti. Il tempo di leggere il comunicato stampa diffuso da Greenpeace il 3 novembre in merito a uno studio condotto dalla branca asiatica dell’associazione ambientalista che distribuisce pagelle ai primi dieci gruppi automobilistici mondiali sul loro impegno nella decarbonizzazione. E assegna, tenetevi forte, alla Toyota la maglia nera. Prestate attenzione a quella espressione, decarbonizzazione. Perché, come diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa, le parole sono importanti.

Approccio discutibile. In realtà di decarbonizzazione, cioè di riduzione dell’immissione in atmosfera di CO2, nello studio si parla poco. Greenpeace, con una scorciatoia logica quantomeno ardita, stabilisce un’equivalenza tra decarbonizzazione e transizione all’elettrico e di conseguenza dà le sue pagelle in base al volume di elettriche vendute e al peso percentuale che esse hanno sul totale delle vendite di ogni costruttore, nonché sui piani e sulle tempistiche di abbandono delle propulsioni endotermiche e, infine, sullo stato di decarbonizzazione a livello di catena delle forniture (la supply chain pesa per il 20% nella valutazione finale). Le ibride non vengono prese neppure in considerazione, perché continuano ad affidarsi a combustibili fossili e hanno un potenziale di riduzione delle emissioni di anidride carbonica inferiore a quello delle elettriche pure (sic! Magari il paragone andrebbe fatto con le endotermiche pure, rispetto alle quali le full hybrid la CO2 la riducono eccome).

Analisi o ritorsione? Nella valutazione di Greenpeace si mescolano misurazioni quantitative, come quelle ricordate sopra, a valutazioni qualitative, cioè non misurabili con criteri numerici, come l’attività di lobbying. La Toyota è tra gli attori industriali più loquaci nella difesa dei motori endotermici, si legge nello studio. E nel comunicato stampa di accompagnamento, l’associazione ambientalista accusa il primo costruttore mondiale di essersi attivamente speso nel cercare di ritardare la politica di passaggio all’elettrico in Giappone e all’estero. Non è difficile leggere un riferimento alle esternazioni del ceo Akio Toyoda, lo scorso dicembre, che mettevano in guardia sulle conseguenze socio-economiche di un passaggio troppo repentino all’elettrico puro. Una presa di posizione evidentemente mal digerita in alcuni ambienti.

I piani per l’auto a batteria. Date le premesse metodologiche dell’indagine, è logico che un produttore come la Toyota che dal lontano 1997, quando uscì la prima Prius, ha costruito tutta la sua strategia sui motori full hybrid (i quali affidano la propulsione al lavoro congiunto tra motore a combustione e motore elettrico) non sia messo benissimo nel singolare universo di buoni e cattivi dipinto da Greenpeace. Per carità, la Casa nipponica ha il suo piano, che prevede l’introduzione di 15 Bev (battery electric vehicle) entro il 2025 per arrivare a vendere 2 milioni di vetture tra Bev e Fcev (Fuel cell electric vehicles). Tuttavia, nel 2020 ha venduto soltanto 9.154 Bev e 1.564 Fcev, quest’ultime rappresentate sostanzialmente dalla Mirai. La prima elettrica su piattaforma nativa sarà, l’anno prossimo, la Suv bZ4X.

L’ecologia sul campo. In realtà, il costruttore di Nagoya può esibire un medagliere assai più ricco nelle Olimpiadi dell’ecologia: 18,7 milioni di ibride full vendute a livello mondiale dal 1997 a oggi e target dei 20 milioni entro la fine dell’anno. E ognuna di esse ha dato un contributo, variabile in base al modello, alla riduzione globale della CO2. Mediamente, secondo la casa costruttrice, un’ibrida muovendosi in città funziona senza l’intervento del motore a combustione per almeno la metà del tempo e tocca punte oltre l’80% del tempo e il 70% delle percorrenze a zero emissioni. La stessa Greenpeace riconosce che gli ibridi full comportano una riduzione di almeno il 20% delle emissioni climalteranti, ma liquida questo contributo come irrilevante. chiaro che, se quel che conta è la guerra (ideologica) contro l’endotermico, tutto ciò lo si può tranquillamente ignorare. E bocciare senza appello il costruttore che più di tutti è stato pioniere dell’elettrificazione. 

Non solo Toyota. E gli altri gruppi come se la cavano nella classifica di Greenpeace? La Casa giapponese è in buona (o, dovremmo dire, cattiva) compagnia assieme a Stellantis e a Ford. Anche Daimler, a dispetto dell’intenso programma di elettrificazione (che la porterà a lanciare cinque nuovi modelli a zero emissioni l’anno prossimo, che andranno ad aggiungersi ad EQA, EQC ed EQS già a listino), non riceve da Greenpeace voti brillanti. A metà classifica si collocano Honda, Hyundai-Kia e Nissan, mentre i più virtuosi risultano la Renault, il (prevedibile) gruppo Volkswagen e (un po’ a sorpresa) la General Motors.

Ma il settore che emette più CO2 è  In  generale, ma forse è superfluo sottolinearlo, il giudizio verso l’industria dell’auto è piuttosto severo. Nessuno dei gruppi presi in considerazione ha nei piani il progressivo abbandono dei motori endotermici su un orizzonte temporale anteriore al 2035 e sette su dieci (Daimler, Ford, Nissan, Renault, Stellantis, Toyota e Volkswagen) non hanno fissato una data per la loro eliminazione totale, si legge nel comunicato. Insomma, se per Akio Toyoda (e molti altri osservatori, anche in Europa) la transizione all’elettrico rischia di essere troppo rapida, con conseguenze socio-economiche potenzialmente drammatiche, per Greenpeace l’industria automotive non fa abbastanza. I trasporti ribadisce l’associazione ambientalista contano per circa il 24% delle emissioni dirette di CO2 da combustione. Ma quelle del traffico automobilistico leggero sono meno della metà. E sapete qual è il settore che ha un impatto praticamente doppio, qualificandosi come la maggior fonte di emissioni climalteranti? Il riscaldamento e la produzione di energia elettrica. Risulta dallo studio di Greenpeace.