Guida autonoma – A che punto siamo veramente?
Nulla è semplice, nel mondo dell’auto. E se è complesso far funzionare in modo ottimale un’auto tradizionale, figuriamoci quando si tratta di fare in modo che si muova in condizioni di sicurezza senza guidatore. Cioè, con quella guida autonoma che, a giudicare dagli annunci di solo qualche anno fa, sembrava essere già alle porte. In realtà, nell’anno di grazia 2021, anche se la tecnologia continua a fare progressi importanti, soprattutto in termini di assistenza al guidatore (quei dispositivi che chiamiamo comunemente Adas e che sottoponiamo regolarmente a test al Centro prove di Quattroruote), la guida autonoma nel senso più completo del termine è qualcosa ancora di piuttosto lontano. Non impossibile, intendiamoci, soprattutto dal punto di vista tecnologico (ci sarebbe poi tutta una pletora di aspetti etici e normativi da prendere in considerazione): ma, per così dire, temporalmente più distanziata, in un futuro vago e ancora da definire.
I perché della frenata. Chiariamo subito che la pandemia del coronavirus ha a che fare con il rallentamento della corsa alla self-driving car soltanto fino a un certo punto. Sicuramente il Covid-19, con tutto quello che ha significato in termini di blocco della produzione (con il lockdown planetario della primavera scorsa) e di calo (se non crollo) della domanda di autoveicoli a livello mondiale, un ruolo l’ha avuto. La tendenza, però, era in atto già prima ed è facile capirne le ragioni. Un primo motivo riguarda la presa di coscienza da parte dei costruttori del reale impegno tecnologico necessario per la realizzazione della guida autonoma dei livelli 4 e 5 secondo la classificazione Sae, nei quali l’intervento umano è richiesto soltanto in particolari circostanze o, addirittura, mai (con conseguente sparizione del volante dagli abitacoli). Se è relativamente facile realizzare veicoli in grado di muoversi da soli in contesti limitati, come città artificiali o highway perse nel deserto del Nevada, molto più complesso è prevedere la reazione dei sistemi di bordo in un quadro complesso e imprevedibile come quello dei centri storici delle città, soprattutto europee. Radar, lidar e telecamere sono all’altezza del proprio compito nel caos del traffico di Roma o Palermo? Possono gestire un veicolo da soli anche tra i palazzi di Siena o nel cuore di Strasburgo e Siviglia? Sanno evitare le mosse impazzite di un anarchico utente di monopattino elettrico o bike sharing? E come si comporterebbero in un contesto extra-urbano complesso, come una strada di montagna, con condizioni meteo variabili e con situazioni poco definibili a priori, per esempio in presenza di un’invisibile lastra di ghiaccio su un tornante (peraltro, già privo di segnaletica orizzontale)? Casi in cui servirebbero l’intuito, l’esperienza e la capacità di reazione propri del genere umano. Probabilmente, la tecnologia prima o poi sarà in grado di affrontare anche tutto questo, ma quanto tempo e quante risorse servono per arrivare a un tale livello di sofisticazione? La complessità dei sistemi, infatti, oltre a costituire di per sé un problema da risolvere, ha un risvolto non trascurabile: necessita l’infusione di enormi quantità di capitali nella ricerca. Il costo per la realizzazione, lo sviluppo e la verifica sul campo del funzionamento dei componenti è molto elevato; poi c’è quello di produzione e d’installazione sui veicoli, almeno inizialmente così alto da renderne accettabile l’utilizzo soltanto su modelli premium. E tutto questo arriva in un momento in cui i costruttori devono confrontarsi con margini di guadagno risicati e, soprattutto, con gli elevati investimenti necessari per far fronte a un’altra sfida, decisiva e inevitabile: quella dell’elettrificazione. Morale: vale la pena iniettare dosi massicce di denaro in un settore come quello della guida autonoma, per il quale, tra l’altro, la domanda da parte dei consumatori è ancora freddina (quando non sconfina in un netto rifiuto)? Ecco spiegati in sintesi i motivi della frenata.
L’unione fa la forza. Frenare non vuol dire, naturalmente, fermarsi: sottotraccia, con meno enfasi rispetto al recente passato, ma le cose continuano comunque a muoversi. Nei mesi scorsi si sono registrati ancora accordi e investimenti. Stellantis, per esempio, ha esteso a veicoli commerciali come il Ram ProMaster (versione americana del Ducato) la collaborazione sulle tecnologie per la guida autonoma che ha in corso già da tempo con Waymo, società nata dal progetto per la cosiddetta Google car, con la quale aveva già lavorato sui minivan ibridi Chrysler Pacifica. La Mercedes, invece, ha unito le proprie forze con quelle di Nvidia per sviluppare ulteriormente applicazioni dei livelli 2 e 3; il gruppo Volkswagen ha finalizzato, nel giugno 2020, un investimento di 2,3 miliardi di euro nella Argo AI, società americana specializzata nell’intelligenza artificiale, nata a Pittsburgh nel 2016 come startup e poi entrata a far parte della galassia Ford. Annunci per niente marginali. Ma neppure risolutivi.
Chi se ne giova. Se le case automobilistiche stanno dunque dirottando la maggior parte delle risorse su priorità più urgenti, come lo sviluppo e la produzione di un numero crescente di modelli elettrici o ibridi con tutto quello che comporta in tema di piattaforme, batterie ed elettronica di controllo, ci sono altri soggetti che, invece, dispongono di abbondanti risorse finanziarie, non avendo sofferto della pandemia, anzi talvolta avendone tratto benefici. Sono le tech company, lontane dal mondo automotive, ma pronte a fornire ai costruttori tradizionali le loro tecnologie, nel momento in cui quest’ultimi, che hanno da recuperare un ritardo importante sul know-how e sulla forza lavoro consacrata allo sviluppo dei software, ne avranno bisogno. Soggetti come Waymo, Nvidia, Qualcomm, Amazon, per esempio, per i quali la ricerca intorno all’applicazione dell’intelligenza artificiale sui veicoli è soltanto un ramo collaterale del proprio business, nel quale riversare senza troppi patemi parte della loro enorme liquidità, e che, comunque, godono del vantaggio di avere in pancia proprio quegli asset (leggi software) che costituiscono il loro core business. Non è un caso, quindi, se nel recente report che Bloomberg Hyperdrive ha dedicato a questo tema, a emergere come leader siano proprio società di questo tipo, spesso sconosciute al grande pubblico. Lo studio considera all’avanguardia, in particolare, Waymo, il ramo di Google fondato nel 2009 per sviluppare la tecnologia del self-driving, che può contare su 3 miliardi di dollari d’investimenti e 20 milioni di miglia percorse da una corposa flotta di veicoli autonomi, una parte dei quali può già essere utilizzata dal pubblico per il ride sharing (da pochissimo, sono partiti i test nel traffico di San Francisco). Anche Cruise, comprata nel 2016 dalla General Motors, gode della benedizione di Bloomberg, in virtù di finanziamenti che le arrivano pure dalla Honda e dal colosso finanziario giapponese Softbank. Rating positivo nello studio pure per Argo AI (i cui principali azionisti sono Ford e Volkswagen), che ha aperto una sede europea a Monaco di Baviera; per Aurora Innovation, tecnopolo della californiana Silicon Valley; per Aptiv, ovvero la vecchia Delphi, big della componentistica che ha cambiato denominazione alla fine del 2017. Se questi sono i leader, c’è poi una nutrita schiera di sfidanti che comprende diverse case automobilistiche, come BMW, Daimler, Toyota e Volvo, insieme con altre tech company più specialistiche (Baidu/Apollo, cioè la Google asiatica, Nuro, “techie” dirimpettaia di Google a Mountain View, e Uber Advanced Technology). La BMW ha formato un consorzio con Mobileye, Intel, e, in un secondo tempo, anche con FCA, dal quale scaturisce il sistema di livello 3 che sarà adottato nel 2022 sulla nuova iX; la Daimler collabora con il colosso dei software Nvidia su un’architettura attesa per il 2024; la Toyota porterà al debutto la propria navetta driverless alle Olimpiadi di Tokyo, slittate alla prossima estate per la pandemia; la Volvo proporrà, sempre nel 2022, il livello 3 su alcuni modelli della gamma. Tutte queste applicazioni, naturalmente, sono subordinate alla presenza di un quadro normativo, condiviso dai vari Paesi, che le renda possibili.
E la Tesla? Molti lettori a questo punto saranno sorpresi dall’assenza, tra le aziende più competitive secondo Bloomberg, del gioiello di Elon Musk, che ha fatto del suo Autopilot uno dei maggiori motivi di vanto. La Tesla, in effetti, continua a proporre ai propri clienti qualcosa che viene definito come “guida autonoma al massimo potenziale”: un’espressione vaga, che sfugge alla canonica classificazione Sae, anche se la cosa non impedisce agli acquirenti delle vetture californiane di sborsare sovrapprezzi considerevoli, pur di avere a bordo del proprio esemplare questa dotazione. Il problema è che, nonostante l’Autopilot sia disponibile ormai da diversi anni, la Tesla continua a non dotarlo di lidar, affidandosi solamente a telecamere e radar. Un limite secondo diversi osservatori. A ciò, si aggiungono le indagini avviate dalle autorità americane (in primis la Nhtsa, responsabile della sicurezza stradale) in seguito ad alcuni incidenti stradali, anche mortali o con il coinvolgimento di veicoli di emergenza. Ciononostante, sul web si possono vedere video di Tesla dotate dell’evoluzione dell’Autopilot, il cosiddetto sistema Full Self-Driving, affidato a un gruppo selezionato di entusiasti clienti americani, che svolgono anche funzioni di sviluppo di release beta del sistema: di recente, Musk non si è detto soddisfatto dei progressi fatti, ma il rilascio definitivo dovrebbe effettivamente avvenire entro la fine del 2021. Il condizionale però è d’obbligo, viste le promesse mancate in passato, anche perché, ancora una volta, la definizione di “Tesla autonoma” (o, più letteralmente, in grado di guidare da sola) non è molto chiara e continua a sfuggire alle maglie delle classificazioni concordate a livello globale. Non a caso, il report di Bloomberg colloca la Tesla tra gli inseguitori, dove le fanno compagnia la Nissan, penalizzata dalle traversie aziendali del dopo-Ghosn, la Pony.AI, fondata quattro anni or sono da ex sviluppatori di Baidu, e Amazon, che ha rilevato nel 2020 per 1,2 miliardi di dollari Zoox, startup della San Francisco Bay Area fondata nel 2014 e finita in difficoltà economiche. A questo quadro si è aggiunta di recente l’israeliana Mobileye, di proprietà della Intel, con la sua proposta di architettura completa ed economica, denominata Trinity, che comprende sistemi di mapping del territorio, logiche di sicurezza e sensoristica per l’acquisizione dei dati; sistemi già installati su una serie di prototipi, destinati a venire testati quest’anno a Detroit, Tokyo, Shanghai, Parigi e New York e, nel corso del 2022, anche a Tel Aviv, in vista della loro commercializzazione. Infine, competitor finora poco conosciuti, ma sicuramente promettenti, sono in arrivo dalla Cina: tra questi c’è AutoX, una startup che ha appena rilasciato un video di un prototipo senza umani a bordo in grado di destreggiarsi con nonchalance nel traffico delle periferie cinesi, tra guidatori indisciplinati, pedoni indecisi e ciclisti che viaggiano contromano.
L’attesa della Mela. Tra le tech company riaffacciatesi al mondo dell’automotive negli ultimi tempi ce n’è anche una che spicca per popolarità: la Apple. Il gigante di Cupertino sembrava aver rinunciato a buttarsi nel complicato mondo delle quattro ruote, al quale pareva ambire diversi anni fa. Sparite le Lexus RX utilizzate per la prima sperimentazione, licenziate nel 2019 circa 190 persone del team che lavorava al progetto, anche i negoziati con il gruppo Hyundai-Kia sono naufragati, complice una fuga di notizie sgradita ai vertici aziendali. Ma i rumor più recenti hanno riportato a galla quello che viene chiamato Project Titan e che vedrebbe la Apple nel ruolo non solo di fornitore di software allo stato dell’arte, ma anche produttore di una propria vettura, destinata a essere bramata dai suoi affezionati clienti come tutti i prodotti che recano l’iconico marchio della Mela. Il problema è che un’operazione del genere ha comunque bisogno, per concretizzarsi, di un partner tecnico robusto. A proposito del quale si fanno parecchi nomi, a partire dalla Foxconn, azienda taiwanese alla quale la Apple affida la produzione di smartphone e tablet, che ha presentato, nell’autunno scorso, una piattaforma modulare elettrica, analoga per certi aspetti a quella Meb della Volkswagen, ma studiata per sviluppi open source e pensata per ospitare anche le future batterie allo stato solido. Non è, naturalmente, l’unica soluzione possibile: altre voci su eventuali partner riguardano la Magna, leader mondiale della produzione per conto terzi (con clienti come BMW, Mercedes, Jaguar e Toyota), che sta sviluppando il proprio know-how sui veicoli elettrici, cui ha consacrato un’intera fabbrica in Cina; la Renault, menzionata in un report sul tema della JP Morgan; non ultima Stellantis, il cui ad Tavares ha dichiarato, nella sua prima call con gli analisti, la propria disponibilità a lavorare sull’elettrico con una tech company, a patto di non diventarne tecnologicamente dipendente. Da notare che la stessa Stellantis, proprio con Foxconn, ha fondato la joint venture Mobile Drive, dedicata allo sviluppo di cockpit digitali e a servizi di connettività.
Rischi occulti. Un futuro, dunque, tutto sommato roseo, per la guida autonoma? Nonostante il rallentamento della corsa, che sposta più in là obiettivi prefissati già per questi anni, la risposta potrebbe alla fine essere positiva. Ma è probabile che, almeno in una prima fase, cioè nell’arco dei prossimi cinque-dieci anni, i mezzi senza conducente saranno destinati soprattutto a quelle che sono state chiamate “islands of autonomy”, ovvero contesti operativi limitati e relativamente semplici, percorsi definiti e protetti, mappati con precisione e riccamente dotati di sensori, telecamere e sistemi di posizionamento di grande accuratezza. Corsie riservate a uso esclusivo, per esempio, protette dall’intrusione di veicoli guidati da esseri umani, il cui comportamento continua a essere, in certi casi, difficilmente prevedibile; oppure convogli di veicoli, anche commerciali e pesanti, che attraversano zone geografiche scarsamente abitate. Navette e colonne di autotreni, dunque, più che auto private che si muovono nel traffico impazzito delle metropoli. Una tesi apparentemente sposata anche da Ola Källenius, ceo della Daimler, che, presentando in febbraio alla stampa i risultati finanziari del 2020, ha ribadito l’intenzione dell’azienda di “proseguire nello sviluppo di tecnologie per la guida completamente driverless, che però, in termini di ricaduta diretta, riguardano il mercato degli shuttle per la mobilità condivisa”, aggiungendo che “la priorità negli investimenti resterà sull’assistenza evoluta alla guida delle auto private”. Sul tema, però, c’è anche un’incognita legata alla sicurezza nei confronti di possibili attacchi informatici. L’argomento è noto e già da tempo è oggetto di contromisure, studiate e in parte commercializzate da società specializzate (in particolare israeliane, come la Upstream, che pubblica al proposito un report annuale). L’allarme è stato rilanciato di recente da due istituzioni dell’Unione Europea, l’Enisa, agenzia per la cybersecurity, e il Jrc, centro comune di ricerca. I loro studi pongono l’accento sui sistemi di intelligenza artificiale che impiegano tecniche di apprendimento automatico (machine learning) e su componenti come lidar, radar e sensori che raccolgono le informazioni sulla strada necessarie alla guida assistita o autonoma. Tutti dispositivi vulnerabili a fronte di attacchi che “potrebbero compromettere il corretto funzionamento del veicolo” e “minacciare funzioni critiche per la sicurezza”. In fondo, sostiene il documento, basterebbe aggiungere vernice sulla strada o modificare con adesivi un segnale, per indurre i sistemi a classificare erroneamente gli oggetti e, quindi, determinare un comportamento pericoloso del veicolo. E questo senza pensare a cyberintrusioni più sofisticate, di quelle che permettono, attraverso i collegamenti online dei sistemi di bordo, di prendere interamente il controllo dell’auto o di impedirne l’utilizzo da parte del proprietario, in attesa del pagamento di un possibile “riscatto”. Niente di diverso, in fondo, di quanto può accadere con un personal computer, a seguito di un attacco di pirateria informatica.