Lutto nel giornalismo – Luciano Garibaldi: un cronista dassalto a Quattroruote

Che cosa ci faceva un cronista d’assalto nella redazione di Quattroruote, un mensile di motori? Quando ci approdai io, nel lontano 1989, praticamente ancora con i calzoni corti, Luciano Garibaldi venuto a mancare il 24 novembre all’età di 88 anni stava lì sì e no da 24 mesi. Nato a Roma, ma cresciuto a Genova, redattore al Corriere Mercantile, giornale del capoluogo ligure, poi inviato speciale per il settimanale Gente, nel 1974 entrò al Giornale di Indro Montanelli. Di nuovo a Gente come caporedattore e poi a La Notte con lo stesso ruolo, Luciano era tra quei colleghi che negli anni di piombo giravano con la pistola in tasca. Arrivavano in redazione, la riponevano nel cassetto della scrivania e la riprendevano la sera prima di uscire. Lui – mi raccontava – aveva optato per una Smith & Wesson calibro 38 con cane interno: così non si sarebbe impigliato nei vestiti al momento di estrarla. Per fortuna non si è mai trovato a dover sperimentare l’efficacia di questa sua scelta.

La dottrina Mastrostefano. Per rispondere alla domanda iniziale, che cosa ci facesse a Quattroruote, la sua presenza era il risultato della convinzione del direttore di allora, Raffaele Mastrostefano, che in redazione, oltre a figure di alta preparazione tecnica, meglio se con una laurea di ingegneria in tasca, e ad appassionati di automobili, servissero anche professionisti del giornalismo (orientamento strategico che all’Editoriale Domus resiste tuttora). Io stesso e diversi altri colleghi assunti subito prima e subito dopo di me non avevamo una formazione motoristica, bensì di cronaca.

La scuola del Milano. Naturale, quindi, al mio arrivo finire nella stanza di Garibaldi: quattro scrivanie, io alla sua sinistra (Il lato migliore dato che sono sordo dall’orecchio destro, mi scrisse scherzosamente nella lettera di benvenuto con cui faceva ammenda di essere assente nel mio primo giorno di scuola), di fronte a me Emilio Deleidi, per decenni colonna della sezione Attualità/Inchieste di Quattroruote, e di fianco a lui un desk occupato in successione da diversi colleghi. In quella stanza si facevano anche le pagine dell’inserto Milano, per anni spina nel fianco delle varie amministrazioni meneghine, di ogni colore. Fu una grande scuola.

Iconografia tradizionale. Sigaretta accesa che pendeva costantemente dal labbro, maniche della camicia rimboccate e gragnuole di colpi a raffica sui poveri tasti della sua Olivetti meccanica (anche quando avevamo ormai preso a usare i computer), Luciano Garibaldi sembrava la personificazione dello stereotipo letterario o cinematografico del giornalista di una volta. Il primo pezzo che scrissi per lui me lo ridiede, dopo averne lette forse dieci righe, dicendomi Che cos’è questa m***a? Riscrivilo!. Inghiottii l’orgoglio e lo riscrissi. Più che un giudizio di merito, pareva un rito d’ammissione. Io sapevo che le redazioni non erano luoghi per mammolette e che potevano partire degli schiaffi (in senso figurato, ovviamente). Lui ora sapeva che ero pronto a prendermi la mia dose senza piagnucolare. Fu subito sintonia.

La passione del suo tempo. Del resto, Gari, come affettuosamente lo chiamavamo in redazione, era una persona sanguigna, a tratti burbera, ma anche estremamente divertente e dallo spirito goliardico: insomma, la classica simpatica canaglia. E infatti era benvoluto da tutti. Alla base, un tratto umano di grande sensibilità, che tanto più si manifestava quanto più lo conoscevi. Dietro ai cliché coloriti, con cui Luciano un po’ gigionescamente giocava, si celava poi un professionista serio, acuto nelle sue analisi, curioso verso le cose e appassionato del proprio lavoro. Dopo essere andato in pensione, si è dedicato alla sua seconda passione, la storia, pubblicando oltre quaranta libri apprezzati e tradotti in più lingue. Tra questi, La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci? (Ares, 2002), Gli eroi di Montecassino (Oscar Storia Mondadori, 2013), Luigi Calabresi, medaglia d’oro (Ares, 2013).

Un solo nemico, l’ipocrisia. Garibaldi si è sempre dichiarato uomo di destra (ma lontano da una destra becera e nostalgica). Incasellarlo in categorie rigide, di fatto, è arduo. Era prima di tutto un giornalista: intellettualmente onesto e con grande autonomia di pensiero, come dimostrano i suoi scritti, pieni di idee originali e assai poco allineati. Sempre teso alla ricerca della verità, non sarebbe mai sceso a compromessi per difendere una verità di fazione. Si proclamava fieramente anticomunista. In realtà rispettava tutti gli uomini e le donne integri, di qualunque parte fossero. Detestava soltanto l’ipocrisia. Arrivederci Gari, maestro e amico.