Mondiale Endurance – Dentro la 1812 km del Qatar
Benvenuti a Lusail: una cattedrale nel deserto. Pardon: un circuito. Per raggiungerlo percorro una quindicina di chilometri in totale solitudine su un’autostrada a cinque corsie infarcita di autovelox. Accrediti ed inviti si ritirano in una piccola tenda, probabilmente l’unica cosa in taglia XS in un Paese dove tutto è realizzato in taglie XXXL, tutto tende all’esagerazione. Basti pensare che diversi grattacieli della skyline, sempre illuminati, sono in realtà del tutto privi di condomini. Un dedalo di strade portano ai parcheggi totalmente vuoti. Inaugurato nel 2004, costruito in appeno un anno, l’autodromo è costato 58 milioni di dollari: meno del preventivo presentato allo Stato italiano per costruire la pista di bob a Cortina per le Olimpiadi del 2026. Senza contare una piccola differenza: il fondo sovrano del Qatar ha in portafoglio giacimenti di petrolio e soprattutto di gas che consentono spese faraoniche a zero impatto sulla popolazione locale.
Sulle tracce del Dottore. La pista misura 5.419 metri, il rettilineo più lungo poco più di un chilometro. Tutto intorno all’anello di asfalto è stata posizionata una cornice di erba artificiale che dovrebbe, nelle giornate ventose, limitare l’invasione della sabbia. Pare vero: i piloti dicono che è difficilissimo superare perché la porzione di asfalto pulita è davvero esigua. Lo spettacolo vero, qui, lo fanno le gare di moto, non a caso la struttura fu inaugurata proprio con una gara di MotoGP vinta da Sete Gibernau, l’acerrimo rivale di Valentino Rossi. A proposito, in questo week end c’è anche il Dottore in gara: a 45 anni, dopo aver dominato con le moto, ora è al via nell’abitacolo di una BMW. Nessuno lo ha avvistato nei box, ma zitto-zitto ha sfiorato il podio arrivando quarto. Ognuno di noi attraversa la mezza età a modo suo: io pensavo di comprarmi una Harley, di certo non sarei mai in grado di compiere simili imprese!
Istantanee dai box. La corsia dei paddock, diversamente dal 99% degli autodromi del pianeta, qui scorre tra due strutture di travertino. I motorhome e i bilici hanno lasciato il posto a villette high tech dotate di ogni confort: aria condizionata, schermi hd grandi come stadi, buffet faraonici. Team manager, vip, addetti ai lavori, ma nessuna traccia delle folle a cui siamo abituati nel Vecchio continente. Giovinazzi si concede per qualche selfie con dei fan. Winkelmann, il ceo di Lamborghini, mantiene un aplomb regale mentre accoglie degli ospiti, nonstante il risultato non troppo lodevole del suo team: partita dalla parte bassa della classifica, l’SC63 fa meglio solo dell’altra debuttante Isotta Fraschini. La classe non è acqua. Alla Ferrari, Coletta e Cannizzo si scambiano opinioni per le strategie su un divanetto. In un angolo, in modo discreto, un gruppo di commissari di pista prega in direzione de La Mecca.
Chi ha vinto? Il giorno della gara, poco prima delle 11, una pattuglia accrobatica composta da cinque monomotore a elica solca il cielo e saluta i piloti. L’inno, e poi tutti in auto: si comincia. Molina parte benissimo, dalla quarta posizione arriva a comandare il gruppo. Dopo mezz’ora l’artigliata del Leone. Al comando si alternano un po’ tutti fino a quando la Porsche non prende il sopravvento. Le italiane non brillano: Isotta Fraschini abbandona. Qui soni solo in pochi (ricchi) ad avere la passione per i motori. La prova del nove la faccio alla fine della gara: mi avvicino a una famiglia che si sta dirigendo verso il parcheggio e chiedo loro chi sia stato il vincitore. La risposta? Un’alzata di spalle. Per la cronaca, ha vinto una Porsche, o forse dovremmo dire che ha stravinto considerato che ha occupato tutti e tre i gradini del podio.