Porsche Panamera – Seimila chilometri con la Turbo S e-Hybrid Sport Turismo

Siccome sono un tizio fortunato, e posso guidare tutte le macchine che voglio, e anche quelle che non voglio, ma che le Case mi prestano lo stesso perché oltre a essere un giornalista di Quattroruote sono un giurato dell’Auto dell’anno, a fine luglio Porsche Italia ha voluto a tutti i costi prestarmi una Panamera Turbo S e-Hybrid Sport Turismo (da qui in avanti PTSe-HST, per risparmiare spazio). E io, che sono magnanimo, ho ceduto alla loro cortese insistenza, eleggendo la Panamera a mio mezzo di trasporto agostano. Siccome il giornalismo è anche sacrificio, l’ho guidata per seimila chilometri. Ora, in un mondo dove sui social (e non solo) si considera un test esaustivo il giro attorno al concessionario, addentrandosi in sofisticate spiegazioni sul comportamento al limite quando al massimo si è passati al drive thru del McDonald’s, seimila chilometri sono – oltre che un inusitato privilegio – un’enormità. Me li sono goduti tutti. E ammetto che alla fine ho fatto non poca fatica, quando per qualche ragione la Casa l’ha rivoluta indietro, a separarmi dalla Panamera: come amava dire il buon Piëch, queste sono auto definitive (espressione inizialmente coniata per l’Audi 200 avant quattro turbo), che compendiano così tante qualità performance, spazio, versatilità, prestigio, confort, un certo understatement da poter essere LA scelta del connoisseur che non si rassegna a compromessi di sorta. Devo anche dire che la mia sorpresa è stata amplificata da aspettative tutto sommato ordinarie. Nonostante sia qualcosa di unico per una serie di ragioni che proverò a spiegare, la top di gamma di Stoccarda che a suo tempo aveva attirato non poche attenzioni ce la siamo un po’ dimenticata: colpa sicuramente del progressivo ridimensionamento del segmento in cui opera, ok, ma anche della concorrenza interna dell’elettrica Taycan, più in linea con lo zeitgeist contemporaneo. Con un sostanziale distinguo. Se la Taycan è eminentemente divisiva, incarnando lo stato dell’arte di una soluzione sgradita ai puristi, ancora restii ad accettare l’idea che la mobilità o sarà elettrica o non sarà, la Panamera – in questa versione plug-in ibrida – rappresenta il compromesso che va bene a tutti: il cavo di ricarica assicura ai pasdaran delle zero emissioni l’illusione di aver contribuito a salvare dall’estinzione la nostra specie, mentre il tonitruante ottovu fa cadere in deliquio il petrolhead anche più retrivo.

Una contraddizione, questo incrocio di nature all’apparenza inconciliabili? Non v’è dubbio. Ma è il problema in generale delle plug-in, più utili ai costruttori per abbattere la CO2 che non ai clienti (il consumo combinato ufficiale è 35 km/l: i policy maker non sono fessi, quindi prevedo una scomparsa del genere). E poi qui il cté full Ev è soffocato dall’ingombrante presenza dello spettacolare V8 quattro litri biturbo che costituisce l’altra metà della coppia, che da solo esprime 571 dei 700 cavalli complessivi e che non si fa alcuna remora nel farsi carico di buona parte del lato propulsivo. Certo, in occasione del facelift di gamma (poca roba, concentrata più che altro sull’aspetto dell’interfaccia touch) l’autonomia in elettrico è aumentata del 30% (a parità di dimensioni del pacco batteria, che è da 17,9 kWh) grazie a una cella al litio più evoluta. Certo, l’autonomia teorica con la sola spinta elettrica ora s’aggira attorno ai 50 km, che sempre secondo Zuffenhausen rappresentano il chilometraggio medio di chi in Europa va a lavorare in auto. Al di là della media del pollo di Trilussa, sempre fuorviante e comunque fuori luogo visto l’oggetto sui generis, la possibilità di marciare senza far intervenire il caro vecchio endotermico ha dunque più il sapore dello sfizio estemporaneo che non della reale alternativa. Tra il ciclo d’omologazione e la realtà ballano una ventina di chilometri di range, a meno di non avanzare a passo d’uomo; inoltre, per concedersi il lusso di quei 30 km bisogna stare attaccati a una colonnina per 2 ore e mezza. In ogni caso, se si vuole provare il gusto del silenzio un metodo alternativo per avere le batterie sempre prestanti esiste: usare il V8 per caricare in marcia con la modalità E-Charge a 12 kW. Ma a quel punto i consumi di benzina decollano, vanificando il senso del tutto.

 

Insomma, tra i due universi, il dominante rimane quello legato alla combustione interna, perlomeno in questa versione iper (nel line-up delle Panamera ibride c’è anche la 4 E-Hybrid con motore biturbo V6 da 2.9 litri e 462 CV di potenza complessiva e la 4S E-Hybrid, da 560 CV). Registrato questo e appreso che la PTSe-HST ha otto cilindri, due turbo, la trazione integrale e pesa 2.440 chili a vuoto (!) ci si sentirebbe legittimati a temere consumi agghiaccianti, una volta spentisi i kWh. Invece e qui iniziano le rivelazioni francamente inattese il mio very long term test ha portato alla luce l’eccellente efficienza del sistema ibrido che è a valle del pleonastico plug-in. Dopo seimila chilometri in qualsiasi condizione d’uso, dalla coda in autostrada fino alla tirata in montagna, la media indicata dal trip computer e desunta dai rifornimenti è stata superiore ai 10 chilometri con un litro. Non che uno in grado di permettersi 200 mila euro di macchina stia a guardare simili banalità, d’accordo. Rimane il fatto che un simile risultato evidenzi la bravura degli ingegneri tedeschi nel combinare istanze fra loro distanti. La relativa economia, infatti, non è stata ottenuta sacrificando un solo micron della tipica esperienza di guida e vita a bordo comune a tutte le Porsche. Il cui calibro progettuale complessivo, da 10-15 anni a questa parte, con l’allargamento della gamma a segmenti prima inauditi e la crescente attenzione verso la sostenibilità, si è alzato a un livello difficilmente raggiungibile dai supposti concorrenti (la cui individuazione è peraltro ardua, da quando la Ferrari si è spostata in un’altra galassia). Le Porsche sono tutte solide, gnucche, costruite da dio, spesso comode a dispetto delle performance, vanno come delle spie e ti regalano una sublime driving experience (santi numi, un’espressione anglofona) senza dover necessariamente pescare come una volta accadeva nelle versioni specializzate. Il tutto, senza scatenare una particolare invidia sociale. Ecco, la Panamera soprattutto in questa versione giardiniera che ne esalta la versatilità è l’apoteosi, il paradigma, la rappresentazione plastica di tali qualità.

Sulla linea mi astengo. A me piace perché è bassa, molto bassa, al punto da costringere i passeggeri posteriori (due, in mezzo non è previsto un essere umano regolamentare) a relativi esercizi d’agilità per sedersi nelle poltrone singole. E a mio modesto avviso dal punto di vista estetico la coda da shooting brake risolve il problema dell’opimo sederone simil-911 sempre un po’ pesante, vista la stazza. Una volta accomodatisi, si sta comodi, dietro (anche se la rastrematura della coda porta via spazio sopra la testa) e soprattutto davanti. Posto guida ideale, con volante piccolo e verticale, seduta rasoterra, rapporti spaziali con i comandi principali e secondari perfetti, strumentazione chiara, sedile duro com’è tradizione della Casa ma massaggiante, riscaldato, raffreddato. Nello stile del marchio, le palette al piantone sono piccole: si usano comunque pochissimo perché la PTSe-HST funziona al meglio se lasciata fare. Nello stile del marchio, l’avviamento (che non prevede la chiave) è a sinistra: se ci fosse ancora Carlo Sidoli, grand peintre du volant fissato con la sicurezza che di Quattroruote è stato vicedirettore per anni, continuerebbe a disapprovare una fisima citazionista che impedisce al passeggero di intervenire in caso d’emergenza. Girato il pomello, due sono le possibilità: se la batteria è carica, l’auto parte in solo elettrico e continua così fin quando ce n’è; se non lo è, si va in modalità ibrida, con l’inclinazione dell’acceleratore a gestire chi deve fare cosa dentro il cofano in funzione dell’angolo di pressione (oltre i 60 parte di default l’ottovu).

Su strada, la Panamera si rivela ben più che uno spettacolare esercizio di complessità tecnica, come spesso accade su alcuni modelli dove l’innegabile impegno R&D non restituisce una proporzionale efficacia d’utilizzo. Intanto, è del tutto inavvertibile, a parte l’ingresso in scena del baritonale scarico, la transizione fra i due funzionamenti, il che contribuisce a una souplesse complessiva straordinaria. La PTSe-HST, che ha una potenza specifica di 143 CV/litro (!), è superba a qualsiasi velocità, diventando sempre più coinvolgente quando si inizia a spingere. Viste le masse in gioco, l’agilità è un’altra cosa; però faccio fatica a pensare a un’altra auto di tale corporatura così naturalmente sicura e veloce in qualsiasi condizione. Il merito va all’omogeneità fra elastocinematica, gruppo motopropulsore (il cambio è un doppia frizione Pdk a otto rapporti, dentro cui è peraltro integrato il motore elettrico), sterzo e sospensioni pneumatiche: nessuna della componenti sovrasta le altre, inducendo un’andatura che è impermeabile ai movimenti di cassa, che prevede il minimo sforzo del guidatore anche quando si tengono medie fenomenali e che rende superfluo il ricorso ai mode Sport e Sport Plus (a meno di non voler sentire il suono del V8 trasformarsi da baritonale in cavernoso). Per quanto certi dati possano essere pletorici, una velocità massima di 315 all’ora e un’accelerazione 0-200 in 11,2 secondi danno comunque la misura di capacità obbiettivamente inconsuete e forse senza pari nell’attuale produzione di serie. Ora capisco meglio quando Thomas Friemuth, il responsabile della linea Panamera, dice di aver “speso un sacco di tempo dentro il cofano ottimizzando motore e sospensioni per migliorare ulteriormente l’ampiezza di gamma tra performance e confort”: grazie alle modifiche al Porsche Dynamic Chassis Control Sport System (Pdcc, per gli amici), che governa le barre antirollio attive, il torque vectoring e il retrotreno sterzante, onestamente non ci sono in giro tante macchine così biblically fast, come ha scritto un collega inglese. E per quanto certe cose mi sembrino stupidaggini anacronistiche, capisco anche perché la Panamera Turbo “normale” abbia segnato il record al Nürburgring fra le berline executive.

I difetti, alla fine, suonano più come minime mancanze che non compromettono un’esperienza d’eccezionale livello: in città, la modulabilità del freno è poco progressiva (nonostante l’aggiunta di un servo elettromeccanico per meglio gestire la transizione fra la frenata rigenerativa e quella “normale”); alle alte andature, il rotolamento degli enormi pneumatici da 21 si fa sentire; e il purista potrebbe ritenere la reattività del propulsore un po’ troppo artificiale, oltreché travestita da un pedale del gas pigro, rispetto alla belluina veemenza del benzina puro. Ora so che tutti voi vi farete la fatale domanda, sbirciando speranzosi l’estratto conto: val la pena precipitarsi dal concessionario Porsche per prenotarne una (quando la consegneranno, vista la carestia di chip, è un altro paio di maniche)? Difficile dare una risposta logica. Per quanto l’autonomia supplementare garantita dal pacco batterie sia apprezzabile, di certo non cambia la vita, e comunque in gamma ci sono altre versioni ibride che costano meno. E non è chi non veda come la Turbo S normale sia più leggera e veloce, libera com’è dal peso e dalla complessità del sistema ibrido. Ma qui la razionalità c’entra poco. La PTSe-HST trova senso perché è la summa delle conoscenze Porsche: diciamo che è la migliore macchina di cui il mondo non sentiva l’esigenza e chiudiamola lì.