Italian Energy Summit – Cingolani: “Sforzo di transizione colossale, ma potrebbe non bastare”

Che prospettive ci sono perché la transizione energetica si compia nei tempi previsti dal Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza? A giudicare da quanto emerso dall’Italian Energy Summit, organizzato da 24 Ore Eventi in collaborazione con Il Sole 24 Ore, che ha raccolto a Milano i numeri uno delle aziende del settore, le possibilità che tutto si completi secondo la road map stilata dal governo e dai referenti europei sono soggette a innumerevoli variabili, non tutte facilmente controllabili. Il primo allarme è arrivato da Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, che – da uomo di scienza – non si stanca dal metterci davanti alla realtà dei fatti: “Abbiamo un piano molto ambizioso”, ha esordito, “che segue i target previsti dall’accordo di Parigi sulla decarbonizzazione al 55% nel 2030: questo significa che dovremmo arrivare al 2030 con più del 70% dell’elettricità prodotta con l’utilizzo di sorgenti rinnovabili. Ciò vuole dire implementare nei prossimi anni impianti a energia rinnovabile, prevalentemente fotovoltaica ed eolica, per circa 70 gigawatt”. Uno sforzo di proporzioni colossali, visto che – ha proseguito il ministro “oggi stiamo installando circa 0,8 gigawatt l’anno, quando ne servirebbero 8”. Di questo passo, quindi, il rischio di non centrare gli obiettivi del Pnrr è concreto e, con esso, lo è anche quello di vedere sfumare l’ingente mole di finanziamenti europei disponibili.

Le cause del ritardo. Perché non si riesce a procedere più speditamente? Cingolani non ha dubbi: “I problemi sono innanzitutto di natura infrastrutturale: la catena dei permessi in Italia è arrivata a superare i 1.200 giorni ed è qualcosa che non ci possiamo più permettere; ora, grazie al lavoro importante fatto con il decreto semplificazioni, il tempo medio è sceso intorno ai 200-250 giorni. Un risultato significativo, ma basterà a motivare maggiormente i potenziali investitori, visto che anche la più recente asta per l’installazione di nuove fonti per la produzione di energia rinnovabile (per un valore di 2 gigawatt) indetta dal gestore dei servizi energetic ha visto assegnato soltanto un volume pari al 20% del totale? Per il ministro, quello che serve è una pianificazione più rassicurante per gli investitori, basata su programmi credibili, che tengano conto delle istanze locali, regionali e comunali, così da evitare che, al momento decisivo, tutto finisca per bloccarsi in nome della solita sindrome Nimby, quella di cui sono afflitte le persone che dicono “vogliamo l’energia pulita, purché non facciate l’impianto vicino a casa mia”. La transizione ecologica, come ama ribadire il ministro, dev’essere sì veloce, ma non troppo, perché deve tenere conto delle istanze sociali, economiche e industriali: i tempi previsti dal Piano lo consentono, ma se ciò non avverrà, per non correre il rischio di venir meno a un contratto vincolante nei confronti dell’Europa qual è il Pnrr, “anche se non augurabile, si può pensare di fare ricorso a degli strumenti coercitivi”.

Problemi culturali. Gli obbiettivi di Fit for 55, del resto, sono molto sfidanti: si tratta, come ha ricordato Giuseppe Ricci, presidente di Confindustria Energia, di ridurre del 55% il quantitativo di CO2 prodotta rispetto a quello del 1990. Per il nostro Paese, significa un taglio complessivo di oltre 160 milioni di tonnellate da qui al 2030. Come arrivarci? “Con una crescita verticale delle energie rinnovabili, una maggiore efficienza energetica, soprattutto negli utilizzi civili e industriali, e la decarbonizzazione dei trasporti”, ha spiegato Ricci, aggiungendo che una sola di queste soluzioni non basta: spingere al massimo l’elettrificazione non deve tradursi nel rinunciare, per esempio, a utilizzare maggiormente i biocarburanti, ricavando combustibili da scarti e rifiuti. Impianti che, però, nessuno vuole vicini a sé: ed ecco che si ritorna alla sindrome Nimby. “Il problema maggiore”, ha sottolineato Ricci, “non è solo burocratico: è la diffusione di una cultura popolare anti-infrastrutturale, la volontà di non fare le cose che è cresciuta nel tempo e che rischia di costituire una barriera insormontabile anche solo all’installazione di una pala eolica o un pannello fotovoltaico”. Un problema che, per inciso, non si risolve a colpi di decreti.

La parola ai big. Ma che cosa pensano di tutto questo i vertici dei colossi energetici del nostro Paese, come Enel, Eni e Snam? Per Francesco Starace, ceo dell’Enel, “l’azienda è pronta a investire 26 miliardi di euro per progetti inerenti il Pnrr, soltanto 6 dei quali provenienti dai fondi europei; ma più del denaro, quel che serve è un percorso di riforme strutturali che renda possibile utilizzarlo e creare, a livello di indotto, 100 mila posti di lavoro”. Semplificazione, dunque, e accelerazione dei processi. Claudio De Scalzi, ceo dell’Eni, ha invece preso spunto dalla grande volatilità dei mercati energetici e dalla carenza mondiale di gas, la cui domanda è cresciuta considerevolmente, per sottolineare come la decarbonizzazione debba andare di pari passo con il cambiamento non solo dell’offerta energetica, ma anche della sua domanda: quello che è necessario, a sua parere, “è la creazione di un mosaico integrato di fonti diverse che lasci spazio anche al biogas e alle biomasse, così come all’idrogeno ottenuto con processi ecocompatibili e alla sperimentazione sul cosiddetto nucleare pulito ottenuto con la fusione”, per la quale l’Eni conta di proporre un prototipo in piccola scala nel 2025. Tranquillizzante, infine, il messaggio di Marco Alverà, ceo della Snam, che, nonostante la crescita smisurata della domanda di gas da parte della Cina (arrivata a 50 miliardi di metri cubi) e la riduzione della produzione Europea (diminuita di 15 miliardi di metri cubi) origine dell’attuale tensione dei mercati, ha confermato che l’Italia non soffrirà durante il prossimo inverno di carenze sotto questo profilo, grazie alla disponibilità di stock pieni per l’85%, contro il 60% di Germania e Olanda e l’azzeramento delle riserve britanniche.